domenica 6 dicembre 2015

Città di Vetro di Paul Auster, David Mazzucchelli, Paul Karasik

Più volte le trame di grandi best sellers sono stati adattati per il cinema, ma la differenza delle caratteristiche espressive dei due media ha comportato naturalmente rimaneggiamenti più o meno profondi, la mancanza di una stretta aderenza del film al libro che lo ha ispirato è quindi comprensibile.
Meno spesso il testo di celebri romanzi è stato riproposto a fumetti, ma anche in questo caso il divario tra le peculiarità comunicative dei due generi ha reso necessarie modifiche il cui risultato è stato spesso una riduzione parziale e non una trasposizione fedele dell’opera originale, esiste tuttavia almeno un’eccezione.
Città di Vetro, romanzo di Paul Auster, si rispecchia infatti perfettamente nella struttura grafica dell’omonimo Graphic Novel nato dai testi di Mazzucchelli e dai disegni di Karasik. La frequente suddivisione delle pagine in tre strisce di tre vignette quadrate uguali, che ricorda lo schema dello “zero per”, consente infatti ai due autori di sostenere, in parallelo con il romanzo di Auster, una labirintica riflessione sulla natura del linguaggio.
Quando l’uomo abitava ancora l’Eden era suo compito dare un nome a tutto e grazie alla sua perfetta innocenza l’oggetto e la parola erano intercambiabili, il significante ed il significato erano cioè indissolubili.
Karasik ce lo dimostra scrivendo sul sentiero che Adamo percorre sotto il sole, la parola “ombra” invece di disegnare la sagoma proiettata dal suo corpo. Il peccato originale provoca però il distacco delle cose dai loro nomi e la caduta dell’uomo si rivela come la storia della sua perdita della lingua divina.
Nel tentativo di ritornare nell’Eden Peter Stillman segrega il figlio per impedirgli di imparare la lingua degli uomini e recuperare così quella di Dio. La reclusione del bambino, che porta lo stesso nome del padre, viene simboleggiata in una vignetta con una grata di quattro sbarre incrociate a due a due.
Dopo nove anni Stilmann è scoperto e processato mentre il figlio, ricoverato in ospedale, impara infine a parlare grazie all’aiuto di una logopedista. Preoccupato dal successivo rilascio del padre che lo ha minacciato di morte, Stillman telefona a Paul Auster, credendolo un investigatore privato. L’uomo è in realtà uno scrittore, omonimo dell’investigatore, che, dopo aver perduto moglie e figlio, vive immedesimandosi completamente nel detective Quinn, protagonista dei suoi stessi gialli.
Seguendo tale inclinazione Auster accetta l’incarico di sorvegliare il padre di Stillmann dopo una lunga conversazione con il figlio.
Questo colloquio trascina Auster nei meandri del distorto linguaggio di Peter, rappresentato come una continua associazione di oggetti parlanti tra i più svariati, un grammofono, un cilindro, persino lo zero di una partita a “zero per”, gioco senza vincitori e pertanto allusivo alla limitatezza della comunicazione, che richiama come suddetto lo schema della pagina.
La porta di una prigione è del resto il culmine grafico del resoconto di Peter, una splash page in cui non si riescono quasi più a distinguere gli spazi che dividono le vignette dalle sbarre della cella.
La struttura della pagina si rivela quindi chiaramente come una metafora appropriata della vicenda che contiene ed è un tuttuno con essa: come l’uomo è imprigionato lontano dall’Eden dalla sua lingua, così il linguaggio del fumetto si rivela a sua volta una gabbia, e Mazzucchelli ce lo indica con la ricorrenza ossessiva di simboli che si richiamano tutti tra loro, le sbarre incrociate a due a due, lo “zero per”, la porta della prigione. La cella tuttavia non rinchiude solo Peter Stillman figlio, il lettore stesso, trovandosi all’improvviso di fronte al cancello chiuso comprende di essere a sua volta intrappolato, ed è quindi spinto ad interrogarsi sulla possibilità di liberarsi.
Paul Auster inizia a pedinare Peter Stillmann con costanza, ma un giorno improvvisamente lo perde di vista; rimasto senza alcun indizio pensa di chiedere aiuto al vero Auster, il detective, ma scopre che anche questi è uno scrittore e che ha un figlio che si chiama Paul.
Al protagonista della nostra storia non resta dunque che piazzarsi davanti al palazzo del figlio di Stillmann, rimanendo sveglio per settimane senza allontanarsi mai, per scoprire infine che la casa che sorvegliava è vuota mentre lui, assente dal suo domicilio per mesi, è stato sfrattato per morosità. Auster decide quindi di recarsi nell’ex-casa di Stillman e contemporaneamente la struttura della pagina perde la sua ricorrente simmetria precipitando in una cascata di vignette irregolari.
Karasik e Mazzucchelli ci indicano così che l’dentità di Auster è definitivamente svuotata, il suo nome non appartiene più a lui ma ad uno scrittore che ha ancora la famiglia che lui invece ha perduto, Quinn, il detective in cui non è riuscito ad immedesimarsi, non è più neanche un personaggio letterario dal momento che il suo autore ha rinunciato alla scrittura.
Semplicemente Paul Auster scompare: l’uomo che rinuncia al suo linguaggio non ritorna verso Dio, ma smarrisce la propria identità così come il lettore, perduto nel gioco dei riflessi proiettati dal romanzo sul fumetto, dal fumetto sulle pagine, dalle pagine sulle vignette, dalle vignette su di lui.

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