Se il fumetto si è in parte liberato dal vecchio cliché di lettura
“disimpegnata e inadatta agli adulti” è anche grazie ad autori che lo hanno
utilizzato riconoscendolo come forma idonea ai reportages giornalistici.
Joe Sacco, autore di “Palestina”, ha soggiornato a lungo nei campi
palestinesi e, come ha fatto anche Guy
Delisle
in “Pyongyang”,
concede ai lettori l’opportunità di leggere ciò che lui ha visto in prima
persona attraverso uno stile ricco di dettagli, quasi fotografico, simbolo
della fedeltà di questo reportage alla realtà osservata.
Non è stato semplice scegliere una pagina che rappresentasse il fumetto, per
il timore di affermare implicitamente che qualcuno degli argomenti trattati
fosse meno importante di altri, gli atti di violenza dei coloni israeliani, le
cure mediche negate ai palestinesi feriti o soltanto malati, le donne che
resistono a forme d’interrogatorio violente ed umilianti, gli uomini detenuti
in celle larghe poco più di un metro quadro, le persone che non possono andare
a cercare impiego a Gerusalemme e costituiscono una forza-lavoro a bassissimo
costo, o le palestinesi che lottano per i diritti delle donne, calpestati dai
loro stessi connazionali.
Così mi sono soffermato sulla nipote di Sameh, guida di Joe Sacco, e sul
modo in cui è rappresentata questa bambina di 10 anni in una delle pagine del
penultimo capitolo di “Palestina”.
Vediamo la nipote della guida prima in soggettiva, come se parlasse a noi
lettori, poi inquadrata con lo stesso Joe Sacco, come se fossimo insieme a loro
seduti a parlare.
La vignetta successiva mostra Joe Sacco che resta in silenzio mentre ascolta
le domande della bambina, e ci fa specchiare in lui, un occidentale che, pur
essendo a conoscenza dei diritti negati ai Palestinesi, può solo diffondere
quella conoscenza, ma non sa come ciò possa trasformarsi in un’azione concreta.
Per due vignette ancora la nipote di Sameh torna a interrogarci guardandoci con
ammirazione, curiosità ed intelligenza.
Ci troviamo poi seduti alla sua destra e aspettiamo con lei invano una
risposta dal reporter.
La bambina ci guarda nuovamente negli occhi e come Joe Sacco, noi, gli
occidentali, non abbiamo risposte.
Con un ritmo costante queste due strisce presentano nelle prime due vignette
gli stessi soggetti mentre nelle seconde l’ordine dei personaggi raffigurati è
invertito allo scopo di dare un senso di avvolgimento e immedesimazione
completo e unitario.
Anche le domande della bambina infatti si riassumono in una: “com’è il mondo
esterno da cui sono esclusa? Uguale o diverso?”.
La bambina rappresenta così compiutamente i diversi aspetti della condizione
di reclusione di tutti i Palestinesi. Nell’ultima striscia della pagina viene
chiesto alla nipotina di Sameh se sposerebbe Joe.
La candida risposta, “perché no?”, ci consegna all’amaro pensiero che quello
sarebbe l’unico modo in cui la bambina potrebbe vivere serenamente e studiare
“lo straniero” come le piacerebbe fare.
L’ultimo capitolo di “Palestina” lascia spazio agli Israeliani e al terrore
che li anima e spiega, in parte, un comportamento così incoerente per chi, come
ha mostrato perfettamente Spiegelman in “Maus”, ha provato sulla propria pelle
cosa significhi essere considerato un topo e non un uomo.
Dopo aver rinchiuso i Palestinesi fuori dai quei confini considerati
indiscutibilmente propri, gli Israeliani sono rimasti paradossalmente
prigionieri della paura di ciò che si rifiutano di conoscere pur di
giustificare le loro aggressioni.
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