domenica 8 novembre 2015

Palestina di Joe Sacco

Se il fumetto si è in parte liberato dal vecchio cliché di lettura “disimpegnata e inadatta agli adulti” è anche grazie ad autori che lo hanno utilizzato riconoscendolo come forma idonea ai reportages giornalistici.
Joe Sacco, autore di “Palestina”, ha soggiornato a lungo nei campi palestinesi e, come ha fatto anche Guy Delisle
in “Pyongyang”, concede ai lettori l’opportunità di leggere ciò che lui ha visto in prima persona attraverso uno stile ricco di dettagli, quasi fotografico, simbolo della fedeltà di questo reportage alla realtà osservata.
Non è stato semplice scegliere una pagina che rappresentasse il fumetto, per il timore di affermare implicitamente che qualcuno degli argomenti trattati fosse meno importante di altri, gli atti di violenza dei coloni israeliani, le cure mediche negate ai palestinesi feriti o soltanto malati, le donne che resistono a forme d’interrogatorio violente ed umilianti, gli uomini detenuti in celle larghe poco più di un metro quadro, le persone che non possono andare a cercare impiego a Gerusalemme e costituiscono una forza-lavoro a bassissimo costo, o le palestinesi che lottano per i diritti delle donne, calpestati dai loro stessi connazionali.
Così mi sono soffermato sulla nipote di Sameh, guida di Joe Sacco, e sul modo in cui è rappresentata questa bambina di 10 anni in una delle pagine del penultimo capitolo di “Palestina”.
Vediamo la nipote della guida prima in soggettiva, come se parlasse a noi lettori, poi inquadrata con lo stesso Joe Sacco, come se fossimo insieme a loro seduti a parlare.
La vignetta successiva mostra Joe Sacco che resta in silenzio mentre ascolta le domande della bambina, e ci fa specchiare in lui, un occidentale che, pur essendo a conoscenza dei diritti negati ai Palestinesi, può solo diffondere quella conoscenza, ma non sa come ciò possa trasformarsi in un’azione concreta. Per due vignette ancora la nipote di Sameh torna a interrogarci guardandoci con ammirazione, curiosità ed intelligenza.
Ci troviamo poi seduti alla sua destra e aspettiamo con lei invano una risposta dal reporter.
La bambina ci guarda nuovamente negli occhi e come Joe Sacco, noi, gli occidentali, non abbiamo risposte.
Con un ritmo costante queste due strisce presentano nelle prime due vignette gli stessi soggetti mentre nelle seconde l’ordine dei personaggi raffigurati è invertito allo scopo di dare un senso di avvolgimento e immedesimazione completo e unitario.
Anche le domande della bambina infatti si riassumono in una: “com’è il mondo esterno da cui sono esclusa? Uguale o diverso?”.
La bambina rappresenta così compiutamente i diversi aspetti della condizione di reclusione di tutti i Palestinesi. Nell’ultima striscia della pagina viene chiesto alla nipotina di Sameh se sposerebbe Joe.
La candida risposta, “perché no?”, ci consegna all’amaro pensiero che quello sarebbe l’unico modo in cui la bambina potrebbe vivere serenamente e studiare “lo straniero” come le piacerebbe fare.
L’ultimo capitolo di “Palestina” lascia spazio agli Israeliani e al terrore che li anima e spiega, in parte, un comportamento così incoerente per chi, come ha mostrato perfettamente Spiegelman in “Maus”, ha provato sulla propria pelle cosa significhi essere considerato un topo e non un uomo.
Dopo aver rinchiuso i Palestinesi fuori dai quei confini considerati indiscutibilmente propri, gli Israeliani sono rimasti paradossalmente prigionieri della paura di ciò che si rifiutano di conoscere pur di giustificare le loro aggressioni.

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